Voglio prendere spunto, per questo articolo, da una mini serie basata su una storia vera, che ho avuto modo di guardare e che mi ha dato diversi motivi di riflessione.
Si tratta d Baby Reinder, di Richard Gadd, che racconta le vicende di Donny, un giovane comico trasferitosi a Londra con il sogno di sfondare nel mondo della stand-up comedy: qui però andrà incontro a eventi che renderanno la sua vita un incubo e che lo costringeranno a fare i conti con i suoi demoni.
Questa serie tocca tantissimi temi importanti, ma credo che il filo conduttore sia il bisogno di essere visti, riconosciuti per ciò che si è. Da chi? Da sé stessi.
In una società in cui la costruzione del sé è dettata dai social, in cui la fama e il successo sono le misure del valore umano, l’anima si perde in labirinti che conducono ad una falsa edificazione della propria persona, inaridendosi.
È sul monologo del protagonista, quasi al termine della serie, che voglio soffermarmi, riportandone alcune parti e chiedendoti di riflettere insieme a me.
“Ho temuto il giudizio per tutta la vita. Per questo sognavo la fama, perché quando sei famoso le persone ti vedono così, famoso. Non pensano tutte le altre cose che io ho sempre temuto.”
Cerchiamo di essere per gli altri un riflesso di ciò che desideriamo, nascondendo sotto strati e strati di vergogna chi siamo davvero. Perché non ci accettiamo, perché ci hanno ferito e non vogliamo guardare le ferite infette, ancora vive sotto le maschere che ci imponiamo.
Temiamo il giudizio, eppure, troppo spesso, noi stessi siamo i nostri giudici peggiori. Allora la strada, l’unica possibile, è quella di apparire altro rispetto a ciò che non vogliamo accettare.
Ti è mai capitato di avere paura che ti vedessero fragile, insicuro, incapace, ingenuo? E che, per non essere visto così, hai finto di essere qualcosa di diverso, qualcun altro?
È un meccanismo quasi automatico, ma che genera confusione, una nebbia fitta nella quale la nostra vera essenza si perde, si confonde.
Ciò che ci muove è, insieme alla paura, la vergogna, conseguenza del non rispettare gli standard imposti dalla società.
Come quella volta in cui non hai aperto bocca per il timore di dire qualcosa di sbagliato, o quando hai insultato qualcuno per sentirti superiore ed essere accettato, o quando non hai fatto ciò che sapevi essere la cosa più giusta per non esporti, o, al contrario, pur sapendo di stare facendo qualcosa di sbagliato non ti sei fermato, perché era ciò che si aspettavano da te.
La paura e la vergogna, come sorelle inscindibili, dettano i nostri passi in un labirinto soffocante. Dal quale l’anima chiede di uscire.
“La mia autostima è così bassa che ho lasciato entrare quella pazza nella mia vita. Sapevo che si stava affezionando, ma io ho continuato a farlo per il mio stupido bisogno di attenzioni. Mi lusingava, ed era sufficiente.”
Difficile avere una sana autostima in un mondo che insegna a dare valore all’apparenza, al successo in termini di notorietà e ostentazione di opulenza. L’autostima è una valutazione che si fa di sé stessi rispondendo alla domanda: “Cosa penso di me?”.
Ma se evito di scoprire veramente chi sono e cerco di sembrare ciò che gli altri si aspettano da me, non posso rispondere a quella domanda. Nel gap che si crea tra ciò che vorremmo essere e ciò che realmente siamo, si insinua una fame insaziabile, un bisogno assoluto di attenzioni.
Il valore che attribuiamo a noi stessi, l’autostima, ha un impatto significativo su ogni aspetto della nostra vita: pensieri, sentimenti, comportamenti e la possibilità di intraprendere relazioni sane. Tutto parte dall’accettazione di sé stessi, incondizionatamente, senza giudizio o critica.
Bisogna fermarsi e domandarsi a che punto siamo nel labirinto in cui ci siamo costretti. Incominciare a dedicare a sé stessi le attenzioni che mendichiamo dagli altri.
Poi, sfidare i pensieri negativi su noi stessi e concentrarsi sui punti di forza, sulle risorse che abbiamo, sulle nostre qualità. E sul nostro essere meravigliosamente umani, unici e speciali così come siamo.
“Vedete, l’abuso porta a questo. Ecco, mi ha fatto diventare una carta moschicida per tutti gli svitati che esistono, una ferita aperta pronta da annusare.”
L’abuso. Un mostro con mille facce e infiniti tentacoli. Possiamo essere abusati in tanti modi: fisicamente, emotivamente, sessualmente, verbalmente e con un atteggiamento di incuria che ci lascia persi e frantumati.
Il trauma dell’abuso porta alla frammentazione del sé, ad un dolore sempre vivo e presente, che chiede di essere ascoltato, raccontato, compreso ed elaborato, per tornare interi.
Quando invece la risposta è l’evitamento, quel dolore continua a crescere dentro di noi, diventa veleno che intossica ogni nostro pensiero, ogni azione, ogni relazione.
E, per quanto non ce ne rendiamo conto, finiamo per attirare altre anime che recano in sé la stessa sofferenza malata, persone intossicate dal veleno che non vogliono affrontare.
Bisogna chiedere aiuto, senza vergogna, senza paura. Raccontare il dolore permette all’anima di respirare; la psicoterapia, il counseling possono aiutarla a liberarsi. Perché ogni ferita può essere guarita con le cure giuste e la cicatrice che ne resta, sarà il memento della nostra forza, della capacità di rinascere.
“Ho incontrato una donna trans. Dovreste vederla. È la persona più bella che abbia mai conosciuto e io non ci riuscivo… non riuscivo ad amarla. E adesso lo capisco. Capisco perché ho rovinato tutto agendo in quella maniera. È perché amavo una cosa in questo mondo, più di quanto amassi lei. Una cosa. E sapete cos’era quella cosa? Odiare me stesso.”
Quando siamo in guerra con noi stessi, non c’è spazio per altro. Ci vuole tanta energia per sabotarsi continuamente.
Ogni pensiero, ogni passo, ogni emozione vengono impiegati in una lotta estenuante che ha come unico scopo quello di confermare le convinzioni che abbiamo su noi stessi: non merito, non valgo, sono un perdente. E quando qualcosa di bello fa capolino nella nostra vita, non riusciamo a goderne il dono.
Qualunque sia il motivo per il quale abbiamo deciso di essere i migliori nemici di noi stessi, possiamo scegliere di deporre le armi e incominciare a scoprire chi siamo davvero. Oltre le maschere, tra le macerie sparse dei nostri sogni, nella fragilità che diventa resilienza.
Riconoscersi e accettarsi. Senza etichette, senza giudizi, e darsi la possibilità di vivere pienamente.
Per quanto possa sembrarci di vivere in una società aperta al diverso, ci sono ancora troppi pregiudizi e stereotipi che condizionano il processo di formazione dell’identità personale. Bisogna avere coraggio.
Il coraggio di conoscere sé stessi e di scegliersi, di rispettarsi e onorare la propria unicità. Perché altrimenti finiremmo per accontentarci di un copione mal riuscito, intriso di malessere e solitudine. Siamo chiamati a VIVERE!
“Perché Dio non voglia che corra mai un rischio nella mia vita. Dio non voglia che corra il rischio di essere felice. Ho passato tutta la vita a scappare via. Quindi voglio smettere di scappare.”
E tu, da cosa stai scappando? Forse da te stesso. Perché ti hanno insegnato che devi dimostrare quanto vali, devi darti da fare per contare qualcosa, devi sembrare un vincente. E nascondere la tristezza, soffocare la solitudine, negare la diversità, camuffare i sentimenti.
Ma tu MERITI una vita felice. Non per ciò che fingi di essere o per ciò che fai. Meriti di essere felice per quello che SEI, profondamente. Un’anima fragile, da maneggiare con cura, che spesso si perde in labirinti bui.
Allora smetti di scappare. Fermati, adesso. Sospendi ogni giudizio e datti il permesso di chiederti chi sei. E poi corri il rischio. Il rischio di essere te stesso, per vivere una vita piena.
Libera l’anima e corri il rischio di essere felice!