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Dire addio: chiudere un ciclo per diventare

“Se telefonando
io potessi dirti addio
ti chiamerei”

Questa mattina mi sono svegliata con la voce di Mina nella testa, mentre canta questo meraviglioso brano.

Mi sono domandata quanti addii ho pronunciato e a quanti ho dovuto reagire. In fondo ogni momento è un addio a quello precedente e noi nel frattempo siamo già cambiati, diversi rispetto a un attimo fa.

Tutto scorre continuamente, ma allora perché è così difficile pronunciare, o accettare se ci sono rivolte, quelle cinque lettere che segnano un punto d’arrivo, ma nel contempo contengono i semi di una nuova possibilità?

Indice dell’articolo

Dire addio

È difficile scrivere la parola fine. Si tratti di un’amicizia, di una relazione amorosa, di un’abitudine. Ogni addio reca in sé uno strappo alla nostra identità: a partire da quel preciso momento perdiamo una parte di noi, non saremo più gli stessi. 

Quando qualcosa finisce, se abbiamo investito tempo, pensieri ed emozioni in quel legame, si avvia un vero e proprio processo di lutto, che necessita tempo e pazienza.

Per questa ragione opponiamo così tanta resistenza all’addio: dentro di noi si smuovono tantissime emozioni, tra le quali tristezza, rabbia, paura, smarrimento, solitudine.

Ammettere che qualcosa si è spento e dire basta, richiede coraggio. Di conseguenza, troppo spesso, si trascinano legami ormai logori e situazioni senza senso, pur di non assumersi la responsabilità di un cambiamento così radicale.

Mi piace dare un significato preciso alla parola respons-abilità: leggerla come la abilità di rispondere in modo appropriato agli eventi. 

Nella vita tutto scorre e tutto cambia continuamente, per questo è fondamentale diventare responsabili del proprio destino.

È fondamentale saper dire addio quando è necessario chiudere un ciclo. Se l’inverno si ostinasse a restare, se non mettesse fine al suo gelo, non ci sarebbe spazio per la nuova primavera.

Così, se non accettiamo di dire addio a qualcosa o a qualcuno che non abita più il nostro cuore, non potremo andare incontro a ciò che ancora di bello può accadere.

Nel counseling ho modo di accompagnare tante persone in questa scelta. A bloccarle è il timore di uscire dalla comfort zone, per quanto stretta e buia possa essere, insieme all’ansia legata al futuro.

Marta si costringeva a continuare una relazione ormai vuota, pur di non affrontare il cambiamento. Trascorreva le sue giornate in una solitudine profonda, pur vivendo sotto lo stesso tetto con suo marito, perché ormai tra loro non c’era più niente a tenerli insieme: nessun dialogo, niente sesso, nessuna attenzione. Da troppo tempo.

Dopo averla aiutata a prendere consapevolezza della situazione, si è data la possibilità di considerare come realizzabile la parola fine. Questo le ha permesso di capire che la distanza tra loro era diventata distacco, e ha reciso il filo dell’abitudine che ancora li teneva legati.

Dire addio non è mai facile, ma a volte è necessario, salvifico. In questi casi, quando finalmente riusciamo a pronunciare la parola fine, dopo aver accolto e integrato le emozioni che ci fioriscono dentro, saremo pronti per una nuova primavera.

Il senso di abbandono

Quando qualcuno a cui teniamo ci mette di fronte ad un addio, possiamo provare, insieme a emozioni come la paura, la tristezza e la rabbia, anche un grande senso di abbandono. Ci sentiamo soli al mondo, incapaci di andare avanti.

Nella testa iniziano a vorticare pensieri sul passato, cerchiamo una spiegazione razionale a quanto è accaduto, finendo con il rimuginare sui perché e sulle cause di una fine che non riusciamo ad accettare. Ma più ci ostiniamo a rimanere intrappolati in questi pensieri, più il dolore si cronicizza, dando vita a rimpianti e recriminazioni che acuiscono il senso della perdita.

Il senso di abbandono sarà tanto più forte quanto più non lo avremo elaborato nel nostro passato, quando eravamo bambini e dovevamo staccarci dalle figure di accudimento. 

Eppure, l’abbandono, con il dolore che ne deriva, può avere la funzione di svegliarci da una vita di dipendenze affettive, per darci la possibilità di instaurare una relazione con noi stessi. 

Bisogna stare con le emozioni che arrivano e lasciare che ci parlino del bambino che piange in noi.

Quando i genitori non aiutano il proprio figlio ad elaborare la separazione, una volta adulto, davanti a un addio, sperimenterà un vuoto abbandonico paragonabile a un vero e proprio shock emotivo, immobilizzandolo nel passato. Cosa fare in questi casi? Possiamo cogliere quello che accade come un’opportunità per ritrovarci. Il dolore che proviamo diventa così uno strumento potentissimo per guarirci, staccandoci dal passato, e avviandoci lungo il processo di crescita.

Voglio raccontarti la storia di una donna. 

Quando era soltanto una bambina non è stata accompagnata nel processo della separazione dalle figure di accudimento e, da ragazza, si è ritrovata ad affrontare la perdita improvvisa, in modi diversi, di entrambi i genitori. Un grande vuoto abitava il suo cuore, fino a quando non ha creato la sua famiglia, con due bambini meravigliosi. Ha investito tutta sé stessa in questo progetto d’amore. Il suo mondo sembrava intero, finalmente pieno.

Poi, un giorno, l’uomo al quale si era affidata, per condividere la sua vita, l’ha tradita. Per lei è stato come disintegrarsi in infiniti frammenti, di nuovo il vuoto, la solitudine, il buio dell’abbandono. Ha cercato di ricomporre i pezzi in cui si era frantumata elemosinando attenzione, tentando di colmare, dall’esterno, il senso di inadeguatezza e la fame di appartenenza. Ma la mancanza diventava più grande, la solitudine più profonda. Fino a quando non ha compreso che, a mancarle più di tutto, era proprio lei.

È tornata a prendersi per mano, ha ascoltato la voce della bambina e le ha promesso che ce l’avrebbero fatta, un passo alla volta. Ha incominciato a riempire il vuoto che sentiva con nuova cura e profonda attenzione per sé stessa, fino a diventare consapevole di poter essere intera anche da sola. Il dolore provato le ha permesso di liberarsi dalle dipendenze affettive, cambiando il segno al senso di abbandono, che l’ha avviata al processo di crescita.

Quella donna sono io. 

Oggi so che ogni addio che ho ascoltato o che ho pronunciato, mi ha condotta qui: alla mia anima autentica e libera

Lasciare/ lasciar andare

Un addio nasce nel cuore, molto prima che arrivi nella testa. A volte, lasciamo una persona pur rimanendo al suo fianco. Succede quando gli occhi non si cercano più, le mani non si sfiorano, i passi prendono direzioni diverse e le parole non dette fanno troppo rumore. Allora restiamo in una vita fatta di abitudini e gesti ripetitivi, ma l’anima è altrove, ci aspetta al confine tra l’esistenza e la vita.

L’anima ci chiede di lasciar andare. Amo queste parole: quando le pronuncio arriva un senso di libertà e pace. 

Pronunciale con me, come in un respiro.

Lascio andare il senso di fallimento.
Lascio andare la paura di chiudere un ciclo ormai finito.
Lascio andare il rancore.
Lascio andare il rimpianto per ciò che avrebbe potuto essere e non è stato.
Lascio andare il timore del giudizio degli altri.
Lascio andare la sfiducia in me stesso.
Lascio andare il dolore, dopo averlo compreso e ascoltato.
Lascio andare chi non mi ama davvero.
Lascio andare una relazione che mi mantiene affamato.
Lascio andare l’ansia per ciò che accadrà domani.
Lascio andare ciò che appesantisce il mio cuore e non permette all’anima di respirare.

Quando lasci andare ciò che non ti serve più, puoi dare nuovo valore a ciò che resta.
Allora impari a trattenere i ricordi belli, che ti fanno ancora sorridere.
Trattieni ciò che hai dato e ciò che in qualche modo hai ricevuto in quella relazione.
Trattieni ciò che hai imparato.

E, soprattutto, impari a trattenere una gratitudine profonda, per te stesso e il tuo coraggio e per ciò che la vita ti porterà.

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