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Gli ostacoli al cambiamento

“Il cambiamento inizia nella testa. Se non parte da lì, potrai cambiare taglio dei capelli, regime alimentare, modo di vestire. Ma in fondo resterà tutto uguale, perché non sarai cambiato tu.”

Margherita Roncone

Il cambiamento: quante sfumature di senso contiene in sé questa parola? 

Cambiare è una delle cose che ci riesce più difficile, eppure nulla resta uguale, ogni cosa è in continuo divenire. Anche tu, mentre leggi, sei già cambiato rispetto a un attimo fa: nuovi pensieri si stanno facendo strada nella tua testa, accompagnati da emozioni e poi ancora da altri pensieri. 

Dunque cosa si frappone tra noi e il cambiamento possibile, accolto e agìto con consapevolezza?

Il primo ostacolo al cambiamento siamo noi. 

Quando ci ostiniamo in relazioni disfunzionali, quando ci svegliamo ogni giorno per andare al lavoro con il desiderio di tornare a dormire, quando ci imprigioniamo in una routine che ci spegne. 

Eppure continuiamo a mantenere solide e alte le mura della nostra zona di comfort.

Questo accade perché ci costruiamo una vita immaginaria: proiettiamo continuamente un film nella nostra testa su come deve essere la nostra vita. Il copione si basa su ruoli definiti, abitudini solide, ripetizione di schemi. Ogni giorno, ogni istante alimentiamo l’idea che la nostra vita deve scorrere secondo quei fotogrammi, anche se non ci piacciono e ci fanno ammalare. Sì perché vivere una vita immaginaria alla lunga fa ammalare: l’anima viene privata di tutta la sua luce e diventiamo ombre che si muovono sul palcoscenico dei “si deve” e “non si può”. 

Per avviarsi al cambiamento è necessario uscire dalla propria testa e incominciare a vivere la vita vera. Ma questo ci spaventa. Perché? Perché dobbiamo fare i conti con qualcosa che fatichiamo ad accettare, che troppo spesso vogliamo nascondere: le nostre emozioni. 

Quando viviamo una vita immaginaria non possiamo permetterci di fare entrare le emozioni in scena, così le infiliamo sotto il tappeto della nostra finta sicurezza, come scomoda polvere da dimenticare. Le calpestiamo passeggiando distrattamente nelle nostre giornate fatte di impegni, sorrisi di circostanza, corse continue. Ma prima o poi quel tappeto fatto di certezze fasulle si gonfierà così tanto da farci inciampare, cadere, zoppicare. 

Ed è allora che il cambiamento diventerà inevitabile.

Poche settimane fa, Angela mi ha chiesto aiuto. Quando si è presentata nel mio studio aveva un aspetto trascurato, l’energia bassa di chi vive una vita da fantasma. Nel corso della prima seduta, mi ha raccontato dei suoi vent’anni di matrimonio. Lei e Carlo si sono conosciuti quando Angela era fidanzata con un altro ragazzo, ma ha ceduto alla corte romantica e piena di attenzioni di quello che sarebbe diventato il suo futuro marito.

Era una ragazza indipendente Angela, aveva un lavoro e grandi progetti. Quando si sono sposati ha accantonato i desideri di avere una carriera tutta sua, per dedicarsi al lavoro di Carlo: lo ha aiutato ad avere un bel successo economico, espandendo la sua attività e lavorando al suo fianco instancabilmente, senza alcun riconoscimento economico, perché: “In una famiglia bisogna fare così, bisogna dare senza chiedere niente”.

Hanno avuto due figli e lei si è sempre barcamenata tra il suo ruolo di mamma e di moglie e quello di tuttofare nel lavoro. Carlo ha incominciato a dare per scontati la dedizione e l’impegno di Angela, iniziando a maltrattarla quando lei non riusciva a tenere il passo con tutto. 

In quei venti anni lui la tradisce più volte, Angela sospetta, ma preferisce non indagare. Fino a quando lui non le chiede la separazione. Allora le crolla il mondo addosso.

È in uno stato di grande malessere, non dorme, non mangia, ha scatti di rabbia con i figli e non smette di piangere.

Alla mia domanda: “Cosa vorresti?” mi risponde che vorrebbe tutto come prima. 

“Voglio che torni da me, non accetto che i miei figli abbiano genitori separati e voglio mio marito a casa.”

Nonostante tutte le bugie e il malessere accumulato in venti anni, Angela stava lottando contro il cambiamento che le avrebbe permesso di tornare a vivere. Preferiva continuare la vita che aveva immaginato e costruito nella sua testa, preservando il film scadente in cui aveva un ruolo marginale e senza spessore, piuttosto che affrontare la vita vera, l’unica che l’avrebbe resa protagonista.

Quali erano gli ostacoli al suo cambiamento? 

Gli stessi che spesso ognuno di noi mette in atto, senza saperlo, per evitare di vivere la vita vera.

Indice dell’articolo

Il ruolo: la gratificazione illusoria

Uno dei più grandi ostacoli al cambiamento è il ruolo in cui ci riconosciamo: diventiamo imprenditori, commercianti, madri, mariti, insegnanti e diamo contorni netti alla nostra identità, tagliando fuori tutto ciò che è intimamente legato alla nostra natura profonda.

Per ognuno c’è un momento diverso, ma a un certo punto accade: indossiamo i panni delle aspettative che hanno nutrito per noi o che noi stessi ci siamo cuciti addosso per essere apprezzati, accettati, integrati nel contesto a cui apparteniamo e ci adagiamo in quel ruolo. Ci lasciamo intorpidire dalla routine, dalle abitudini che costruiamo per evitare gli imprevisti, per non essere costretti a domandarci se la vita che stiamo vivendo ci piaccia oppure no. 

Le abitudini si formano perché il nostro cervello è sempre alla ricerca di modi per risparmiare energia. Quasi tutte le scelte che compiamo ogni giorno potrebbero sembrarci il risultato di decisioni ponderate: non è così. Sono abitudini. Con il passare del tempo queste abitudini, che definiscono il nostro ruolo, hanno un impatto enorme sulla nostra salute, produttività e felicità. In un dato momento ognuno di noi ha deciso cosa voleva diventare, quale ruolo avrebbe voluto interpretare nel film che si proiettava nella testa, comportandosi di conseguenza, con piccole scelte quotidiane. Poi abbiamo smesso di scegliere e il comportamento è diventato automatico: il ruolo è diventato una maschera. 

La domanda che potrebbe sorgere spontanea è: perché ci ostiniamo a mantenere un’abitudine se non ci rende felici? La risposta sta nella gratificazione che ne traiamo. 

Quando decidiamo di assumere una determinata identità, facciamo riferimento a un modello che abbiamo introiettato e che è nella nostra testa. Agendo quel determinato ruolo sentiamo di aver assolto a un dovere, ci sentiamo “a posto”. È una gratificazione illusoria e che, alla lunga, diventa tossica, perché avvelena la nostra vera essenza. 

Facciamo un esempio. Ho tre cani che vivono con me e condividono i miei spazi, sono liberi di uscire in giardino e rientrare quando hanno bisogno di riposare. Prima di rientrare, li sottopongo a una pratica che detestano: la pulizia delle zampe. Loro ormai sanno che si tratta di una abitudine e vi si sottopongono, pur se malvolentieri. Hanno imparato, però, che ogni volta che li pulisco, se collaborano restando tranquilli, saranno gratificati con un premio. Potrei scegliere per loro qualsiasi tipo di gratificazione.

Se decidessi di ingolosirli fino a fargli desiderare il momento della pulizia, darei loro qualcosa di cui sono golosi, come un dolciume o del salame. L’abitudine verrebbe rinforzata, ma cosa accadrebbe loro in poco tempo? Si ammalerebbero. In questo esempio l’abitudine è sana, permette una convivenza in cui vengono rispettati il bisogno di libertà e quello di igiene. In realtà tutte le abitudini nascono come potenzialmente sane, proprio perché permettono al cervello di risparmiare energia da dedicare ad altre attività.

Ma quando ci costringono in una routine senza margini di sperimentazione, quando ci bloccano nei ruoli, diventano dannose e la gratificazione che ne traiamo è illusoria. 

È quello che è successo ad Angela: si è costruita una vita fatta di abitudini per sostenere il suo ruolo nella famiglia che ha sempre desiderato, gratificando sé stessa attraverso il riconoscimento nel contesto in cui abitava, nella convinzione di aver raggiunto il suo scopo, di aver realizzato il suo sogno. Ma ciò che la gratificava era pura illusione: stava avvelenando la sua dignità e il suo amor proprio, la sua identità profonda. 

Tu quale ruolo stai vestendo?

Quale gratificazione illusoria ti allontana dal cambiamento che ti riporterebbe alla tua vera natura, ad una vita felice?

Ogni cambiamento incomincia nella testa: è lì che lo concepiamo, attraverso le intuizioni, le idee, i piccoli e grandi progetti. Ma se la nostra testa è troppo impegnata a idealizzare ciò che viviamo, per costringerci a restare nella comfort zone, e nutre aspettative su una felicità illusoria, non ci sarà spazio neanche per rendersi conto che il cambiamento è una ipotesi possibile.

Se non vuoi mettere in discussione l’idea che ti sei costruito su te stesso, se non vuoi lasciare andare il ruolo con l’immagine perfetta a cui vuoi corrispondere, se non rivaluti le aspettative che si basano sul film che continui a proiettare nella tua mente, resterai chiuso nello stesso angolo. 

Il primo elemento indispensabile per ogni processo di cambiamento è prendere consapevolezza che è arrivato il momento di cambiare. La consapevolezza è presenza emotiva e mentale, oltre che fisica, nel momento presente. Se ti affanni a cercare di rendere ideale la situazione che stai vivendo, nonostante il malessere che ti striscia dentro, se sfuggi a te stesso rifugiandoti un futuro da immaginare, non puoi entrare in contatto con il tuo sentire profondo.

L’ostacolo al cambiamento insito nella idealizzazione e nelle aspettative è una totale assenza di dialogo con sé stessi: soltanto ascoltando la tua voce interiore puoi cogliere i segnali che ti guidano al cambiamento, per riuscire a leggere la realtà così come è.

Angela aveva idealizzato la sua relazione sin da subito e aveva nutrito aspettative enormi sul suo matrimonio. Fino a perdere di vista la realtà. Si era ammalata più volte nel corso di quegli anni: cistiti ricorrenti, emicranie persistenti, bronchiti e allergie sopravvenute.

I pensieri e le emozioni che stava tentando di evitare si facevano strada attraverso i sintomi. Quando è stata costretta ad affrontare il cambiamento, ha dovuto lasciar andare il carico schiacciante delle aspettative e ha dovuto far cadere il velo dell’idealizzazione che le impediva di cogliere la realtà così come era.

La paura: della solitudine e del fallimento

La resistenza al cambiamento più grande è la paura. La paura di mettersi in gioco nella vita vera, abbandonando le maschere dei ruoli, i film costruiti nella testa, le aspettative illusorie. 

La paura di guardare sotto il tappeto della finta sicurezza in noi stessi, per fare emergere tutte le emozioni che vi abbiamo nascosto, insieme alla nostra fragilità. 

Perché la fragilità ci espone a due delle nostre più grandi paure: la solitudine e il fallimento.

Per questo facciamo resistenza al cambiamento e ci ostiniamo in una vita fatta di niente. 

Solitudine e fallimento sono profondamente intrecciati: se non corrispondiamo all’idea che abbiamo di noi stessi e che ci consente di essere accettati nel contesto in cui viviamo, ci esponiamo al fallimento, con tutto il carico di vergogna che comporta. E se falliamo, veniamo emarginati, abbandonati, isolati. 

Ma è davvero così?

Angela era cresciuta in una famiglia con forti valori religiosi: il matrimonio era visto come l’apice dei sogni a cui una donna doveva aspirare, un sogno da coltivare attraverso l’abnegazione e l’accudimento, la disponibilità totale su tutti i fronti. Angela aveva nutrito la convinzione che per essere felice, e per essere benvista nel piccolo paese in cui abitava, doveva corrispondere a quell’ideale trasmessole dai genitori e doveva far funzionare il suo matrimonio. A ogni costo. 

Cosa sarebbe successo altrimenti? Si sarebbe frantumata in mille pezzi, perché la sua identità era tenuta insieme dal collante tossico del ruolo che aveva indossato e dalle aspettative che aveva nutrito. Quando suo marito l’aveva messa di fronte alla separazione, le era accaduto questo: si era frammentata, persa nella negazione di quanto stava accadendo. 

“Mi sento una fallita”, mi aveva detto durante una seduta: “Non sono stata capace di fare la moglie, non ho fatto abbastanza”. In realtà aveva fatto fin troppo: aveva investito tutta la sua energia per nascondere la realtà e continuare ad alimentare un sogno, si era totalmente annullata per l’uomo che aveva finito con il darla per scontata e aveva messo a tacere le sue emozioni evitando di ascoltare i sintomi del corpo. 

“Non voglio rimanere da sola”, aveva continuato piangendo. Eppure era sempre stata da sola, immersa in una realtà immaginaria.

Il cambiamento spaventa. Ma è soltanto quando diamo voce alla paura che possiamo comprendere dove ci sta guidando. 

Se non entriamo in contatto con noi stessi, con le nostre emozioni, il rischio che corriamo è di frantumarci quando saremo costretti ad affrontare la realtà, quando il cambiamento si presenterà alla nostra porta, nonostante tutti i tentativi per tenerlo lontano. Perché la vita sa molto prima di noi qual è la strada, l’unica e vera, per la nostra felicità. E fa mille tentativi per richiamarci a noi stessi.  

Tu come stai?

Quali sono le tue paure?

Cosa stai evitando di affrontare pur di tenere lontano il cambiamento?

Se non cambiamo, non cresciamo. Se non cresciamo, non viviamo realmente.

Anatole France

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